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NOSFERATU, IL PRINCIPE DELLA NOTTE (NOSFERATU, PHANTOM DER NACHT) Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 29 marzo 1979
 
di Werner Herzog, con Klaus Kinski, Isabelle Adjani, Bruno Ganz, Roland Topor, Jacques Dufilho (Germania, 1978)
 

Nosferatu, in serbo, significa "non morto". Il vampiro è condannato alle peggiori delle sorti, quella di non poter morire. E’ il tema che, a quasi 60 anni di distanza, ha commosso due grandi visionari: Friedrich Murnau, che molti considerano il più grande cineasta che mai sia esistito, e Werner Herzog, che di tutti i cineasti contemporanei è tra i più personali.

Perché, appunto, un regista così originale, così difficilmente influenzabile come l'autore di Kaspar Hauser ha deciso di rifare il capolavoro del 1922? Probabilmente per un desiderio, comune a gran parte della giovane cultura tedesca contemporanea, di ritrovare le sorgenti della propria ispirazione. Di saltare il baratro provocato dal dramma nazista per riallacciarsi alla cultura dei padri. Di rendere l'omaggio al Mito. E l'omaggio di Herzog a Murnau è infatti eloquentissimo. I due Nosferatu sembrano, a momenti, sovrapporsi esattamente; certe sequenze - fatte le dovute differenze tecniche e produttive che separano la preistoria cinematografica dalla sua avanguardia - sono identiche. Dalle città anseatiche dalle quali parte l'azione, alla mitica Transilvania nei Carpazi dove vive il conte Dracula, Herzog ha inseguito l'ombra fascinosa delle celeberrime sequenze di Murnau. Cercando le medesime angolazioni, truccando il proprio Nosferatu esattamente come il celebre scheletro ambulante del '22, ricreando il medesimo castello, il vampiro che dorme nelle bare con la terra, il viaggio del vascello fantasma con il suo carico di morti, i topi e la pestilenza che invadono la città al seguito del vampiro, il sacrificio finale della moglie della vittima di Nosferatu.

Herzog ha dichiarato di non avere potuto rifare certe sequenze perché gli arbusti di Murnau erano diventati, nel frattempo, degli alberi...

Ma il secondo Nosferatu, quello che oggi ci dà Herzog, non è un semplice rifacimento; addirittura un plagio, come una parte della critica ha affermato. Certo, ci sono le sequenze «d'après», nelle quali la sapienza compositiva di Herzog, tra le più raffinate del cinema di oggi, offre una riflessione archeologica su un momento insostituibile della cultura cinematografica. Certo, c'è il carattere comune ai due cineasti, quel potere di trasformare in magico, per semplice intervento della luce, il mondo che li circonda; di trasformare questa realtà in una visione fuori dal tempo. E c'è, ancora più semplicemente, la sconfinata ammirazione di Herzog per Murnau, il più grande di tutti.

Ma ci sono anche molte diversità. Il 1922 è un'alba tragica, anche senza voler sposare completamente le celebri teorie di Kracauer, che vedono in tutto il cinema tedesco che precede il nazismo i segni premonitori della tragedia. Era anche l'epoca in cui, in Germania, non si credeva alla rivoluzione. E si diceva, con Dostoevskij, che se l'uomo non può cambiare il mondo, è allora l'amore che può cambiare l'uomo. L'amore come forza soprannaturale che salva l'uomo dal Male. Nel Nosferatu di Murnau non c'è pietà per il vampiro, che non è altro che un simbolo apportatore delle pestilenze. Basterà l'amore di una donna per vincere il male: concedendosi al vampiro, nel famoso finale, anticiperà le prime luci dell'alba. E il vampiro, colpito dai primi raggi del sole, si dissolverà per sempre. Non in Herzog, che porta in sé altre esperienze, altri trascorsi storici, altri pessimismi: Nosferatu è distrutto, ma il vampiro si reincarna in Jonathan, il marito della donna. Il sacrificio sarà quindi stato inutile. Il male è eterno, e ritrova mille vie per rinascere.

Anche espressivamente i due film sono dissimili, al di là delle apparenze, Murnau si nutre della cultura del proprio tempo, anche se una delle ragioni che rendono grande il suo film è proprio il fatto di aver ricorso agli effetti espressionisti solo quando entra in scena Nosferatu. E di aver girato il resto del suo film (cosa straordinaria per le regole dei tempi) in esterni. Eric Rohmer ha scritto che tutta l'opera di Murnau è segnata dalla lotta fra la luce e l'ombra. Ed infatti il suo Nosferatu è interamente costruito su questo principio. E' come spaccato in due, da una parte il giorno, dall'altra la notte. Il Bene ed il Male esattamente divisi. I cocchieri arrestano la carrozza al celebre ponte: «Non continuiamo, qui comincia il regno dei fantasmi!». E quando Nosferatu appare per la prima volta, all'inizio della meravigliosa sequenza finale, egli sta fuori dalla finestra, escluso, stagliato nel nero della notte, relegato nel regno del Male.

In Herzog, che è un uomo di cultura romantica, tutto è più sfumato. La luce delle sue albe non possiede lo splendore abbagliante di quella del maestro, i colori del giorno sono pastello e le sue notti sono dei crepuscoli. Più che sulla nozione temporale di giorno e di notte, il Nosferatu di Herzog è dimensionato su quella dello spazio. L'avvicinamento di Jonathan al castello, uno dei momenti forti del film, ci fa percepire materialmente la sensazione della distanza. E così il viaggio del vampiro sul veliero, altro momento di elevazione magica. E' solo nella parte finale che Herzog sembra agganciarsi ai suoi temi. Nosferatu s'iscrive così tardivamente in una tematica che lo attualizza; ed è una delle ragioni per le quali non potrà forse essere ritenuto fra i momenti più alti della carriera di Herzog?

***

L'ultimo film del regista di Kaspar Hauser è, prima di ogni altra cosa, un ritorno al passato. Non soltanto perché è un omaggio a colui che Herzog ritiene il più grande regista della storia del cinema, Friedrich Murnau, ed alla sua opera più rivelatrice, se non più grande, il Nosferatu del 1922. Ma, soprattutto, perché è un ritorno alle origini culturali. Herzog, come tutti gli altri registi di quest'ultimo decennio che ha posto il cinema tedesco a livello altissimo, non ha dei padri cinematografici. Al posto della generazione precedente c'è il buco terribile del nazismo. E quindi questo film di Herzog è l'espressione del desiderio di ritrovare le sorgenti della propria ispirazione, le ragioni delle proprie emozioni, la soluzione ai propri dubbi. Certo, i dubbi di Herzog non sono quelli di Murnau. Anche se alcuni passaggi dei due film sono identici (Herzog è andato a Delft o a Lubecca per ritrovare la medesima inquadratura, l'identico ambiente, la stessa luce del maestro in un desiderio di omaggio di tipo archeologico) soprattutto il finale è completamente diverso. Per Murnau il vampiro è il simbolo del Male. E' escluso dal nostro mondo, quello della luce, ed è relegato nella notte (si pensi alla magnifica sequenza finale, a quella celebre immagine nella quale Nosferatu appare fuori dalla finestra, nel nero). Sarà il potere soprannaturale dell'amore, quello della protagonista per il proprio marito, vittima e succube del vampiro, a distruggere Nosferatu, e a liberarci dal male, dalla peste, dal nazismo che stava per giungere.

Per Herzog, Nosferatu è innanzitutto un «diverso». Tutto il suo cinema è uno sguardo rivolto a coloro che, per una ragione o l'altra, sono degli esclusi. Aguirre è pazzo, Kaspar Hauser un apparente minorato, Bruno S. un ex-carcerato. Di conseguenza, lo sguardo che Herzog pone sul suo Nosferatu è carico di comprensione: il vampiro è condannato alla più terribile delle sorti, quella di non poter morire (Nosferatu = mai morto). E la donna gli si concederà non solo per spirito di sacrificio, ma per voluttà e, si potrebbe dire, amore. Il finale di Herzog è quindi completamente diverso: Nosferatu scompare, raggiungendo finalmente la pace agognata. Ma il vampiro si reincarna nel marito della protagonista: Jonathan (il grande Bruno Ganz nel film) da succube diventa egli stesso protagonista. Il Male non si può distruggere, rinasce in eterno.

Cinema dell'emarginazione, il Nosferatu di Herzog lo è anche espressivamente: in Murnau c'era il giorno e la notte, i due mondi esattamente divisi. In Herzog c'è lo spazio che divide le due dimensioni, ma tutto accentua il carattere emarginato del vampiro interpretato da Klaus Kinsky. Herzog, come Murnau, è uno dei grandi visionari del cinema. Ed il suo film ha momenti di ricchezza espressiva formidabili. Fa pensare però, di tanto in tanto, ad un omaggio meraviglioso, ma calligrafico. E non sembra sempre vivere di vita propria, come certi capolavori del regista, come Kaspar Hauser, per esempio: che è di una bellezza formale impeccabile, ma che tocca continuamente dei temi che ci rimandano al nostro tempo, a tutti i tempi. Quello, ad esempio, del fallimento, della vanità dell'umanesimo, della cultura come l'uomo si tramanda di generazione in generazione. L'uomo buono, il fanciullo fiducioso, che viene buttato in pasto di elementi distruttori, come la scienza, la religione, la cultura.

In Nosferatu questi temi di Herzog non si sciolgono con la medesima felicità delle opere precedenti. Certo, c'è il dottore della città invasa dalla peste, che rappresenta la cecità dell'establishment culturale nei confronti di tutto ciò che attiene alla fantasia, alla magia, alla poesia. Ma nel film è soltanto un momento. Fosse stato diretto da qualsiasi altro, diremmo di questo Nosferatu che è una creazione magica di rara bellezza. Poiché è firmata da Herzog, maestro dell'illusione ma anche della riflessione, diciamo che è splendido, ma meno prezioso.


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